Tommaso Evangelista
IL TEATRO DELLE POSSIBILITÀ.
ARTE E LINGUAGGIO NELL’OPERA DI MARIO SUGHI
in Un desiderio senza più tempo Mario Sughi alla 6° Senso Art Gallery,
Roma 15 Marzo - 5 Aprile 2018, Catalogo della Mostra (Vanilla Edizioni, 2018)
Mario Sughi (aka Nerosunero) lavora sulla rielaborazione della
pratica quotidiana attraverso una contemplazione ambigua del
corpo e dei luoghi. Come un moderno viaggiatore osserva la realtà
con un atteggiamento misto di distacco e partecipazione, un
“uomo della folla” virtuale, invisibile eppur sottilmente presente
nel cogliere, nella vaghezza del consueto, una traccia (teatrale) di
desiderio e libido.
nerosunero, Un desiderio senza più tempo, la Copertina del Catalogo della mostra (Marzo 2018)
L’agire nello spazio asettico del mondo globalizzato comporta
sovente la relazione con generici non-luoghi, spazi anonimi del
tempo libero nei quali la folla agisce indolente, senza profondità,
esaltando invero l’attimo, il momento, il feticcio. L’artista è capace
di cogliere questa dimensione intima e contratta della figura,
riducendola ad icona e segno visivo attraverso un disegno sottile
e pungente. Il medium digitale che adopera, pur causando la
dispersione del rapporto tattile con la pittura, evidenza invece il
timbro facendo emergere altri valori estetici, lontanamente pop,
e stabilendo un preciso repertorio iconico nel quale tutti, abituati
a vedere con indifferenza la vacuità, si possono riconoscere
all’istante modulando un personale coinvolgimento.
Sughi attraverso il blocco della specificità ambientale e
l’annullamento dello sfondo determina da un lato una sorta di
generalizzazione della forma e dall’altro il blocco dell’immaginetempo
sospesa in un universo seduttivamente alienato. Ciò
comporta la cancellazione della Storia per l’aneddoto e una
preferenza per la forma residuale nella sua conformazione
strutturale: privando la narrazione della sostanza Sughi non fa
altro che tradurre la logica dei segni della contemporaneità in
notazione e stilizzazione della traccia che configura icone extraordinarie,
spersonalizzate, espressive di valori nuovi.
La dematerializzazione della presenza (dell’artista o del soggetto?),
che comporta a livello grafico un eccesso del segno di contorno
e una sintesi pittorica digitale, tenta di evocare un vocabolario
sintattico costituito da elementi espressivi puri (forme e i colori) il
cui funzionamento è regolato dalle leggi psichiche della necessità
interiore e della selezione. Tale dissoluzione della struttura
determina allora un’espansione del sentire, la radicalità del
visibile, la trascrizione del mondo in simboli e strutture non prive
di una risonanza interna, ma parimenti provoca il dissolvimento
della narrazione attraverso l’assunzione di oggetti e atti di
consumo di per sé significanti.
Le composizioni, impostate su combinazioni di forme grafiche
e cromatiche che esistono autonomamente in base ad una
percezione – e trascrizione – puramente emotiva (seppur in parte
veicolata dalla street photography), nell’assenza del reale, ovvero
di una proiezione stabile dello spazio, raccontano di un ambiente
relazionale liquido nel quale i soggetti, privi di stimoli empatici,
vengono colti nel loro individualismo e isolamento.
L’artista sembra privilegiare le forme e le strutture pure, ma lo
spazio urbano del consumo, nel divenire ambiente ideale di azione
e descrizione, si trasfigura in specchio di una vita edonistica che
corrode il senso, priva l’esistenza di emozioni e la trasforma in
confine della ripetizione, ripetizione differente ma pur sempre
banalizzazione della possibilità, nella direzione di un ritorno al
reale che svuota la rappresentazione attraverso la scarnificazione
morale degli individui e la perdita del centro.
L’astinenza prospettica, la riduzione cromatica, il formalismo
tendente ad una dimensione astratta (bidimensionale) che
trasmette un senso di immobile pienezza, il minimalismo
figurativo e gestuale sono tutti fattori i quali concorrono invece
all’annullamento della spontaneità attraverso l’emergere
dell’intervallo e della periferia.
Nel divario tra quotidiano e significazione si viene a determinare
uno scarto di senso che genera nuovo linguaggio: l’opera viene
allora a rispondere all’appello impossibile del reale mostrando
una parte d’ombra dove l’individuo si impegna a distruggere le
proprie forze, parte in cui non domina l’utile ma la seduzione
dell’inutile, in cui non domina la ragione bensì la pulsione. In tale
spazio in cui Sughi fa muovere le figure assistiamo, nell’accidia
edonistica della fine, all’emersione di forze superficiali ma latenti
e alla materializzazione di una realtà al rovescio che ci presenta
l’esperienza come non significabile ma solamente rappresentabile,
irreale eppur così totalizzante e attuale, un “qui e ora” che recupera
dalla Metafisica la spazialità irreale e l’apparente quotidianità di
gesti decontestualizzati e decontestualizzabili.
Il reale di Sughi è difficilmente permeabile al segno, è la linea
d’una mancanza, non è più tempo né memoria ma unica ed
asettica realtà comunicativa indice d’un tempo parcellizzato,
sintetizzato e reso impersonale: se la forma scompare la sua radice
non è eterna ma generativa perché digitale, transitoria, sintetica.
L’ipervisibilità del sintetico determina una poetica della selezione,
una specificazione del margine, una rielaborazione dell’azione
minima, impersonale, che pone un freno all’espansione informale
del corpo. Cercando unità strutturali intorno a precisi gesti
comuni lo spettatore esercita uno sguardo alternativo, parallelo,
si illude della distanza ma al contempo si ritrova nel racconto,
nella dimensione quotidiana del vuoto, in una condizione sospesa
e di attesa dove per attesa si intende una precisa estetica della
sparizione che annulla narratore e narrazione, ovvero il rapporto
causa-effetto.
I lavori, come un insieme di istantanee indefinite, esaurite nel loro
mostrarsi, per eccesso di comunicazione e di colore saturano la
visione, svuotano l’aura e scompongono il quotidiano ma, proprio
in questa frammentazione asettica amplificata dalla pittura
digitale apparentemente disimpegnata e ironica, rinveniamo una
dimensione aperta, una soglia dove la messa a nudo dell’atto non è
sintomo di semplificazione ma di purificazione.
La contraddizione della pittura di Sughi sta in questa esclusione
del bello naturale e nell’adozione della forma che benché eccessiva
nel suo edonismo da realismo post-capitalista, nella misura in cui
elimina l’organico attraverso un sottile processo di smontaggio
grafico, aumenta la dimensione del narrare come forma della
memoria.
Il racconto di altre vite permette in fondo all’artista, come su un
palcoscenico, di costruire la propria, svelando il racconto di sé.
Tommaso Evangelista
storico e critico d’arte, docente di
Storia dell’arte e curatore presso il CAMUSAC
(Cassino Museo Arte Contemporanea)
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