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Elettra Stamboulis

Di Sughi in Sughi:

Intervista a Mario figlio di Alberto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Che cosa significa fare l’artista ed  essere figlio d’arte ?

Non sono tanti  quelli che osano questa strada, troppo  forte il rischio del confronto. Sempre alle spalle la paura del nome  del padre o della madre. Eppure per  secoli l'arte è stata fatta da genealogie  e non da singole personalità: tuttavia  nello scorcio dell'ultimo secolo  e in questo nuovo millennio il connubio  crea sospetto. Lo abbiamo  chiesto a Mario Sughi, figlio di  Alberto Sughi, storico pittore originario  di Cesena e uno dei massimi  esponenti della generazione degli  anni '50 e del dopoguerra, per il  quale fu coniata la definizione di realismo  esistenziale: artista a sua volta,  vive però da decenni a Dublino.

 

Di solito i genitori reagiscono  malamente quando i figli decidono  di fare gli artisti. Come la presero  i tuoi genitori ?

«A mia mamma piaceva quello  che facevo, non ha mai recriminato  sulle mie scelte. Ero più io che cercavo  altre strade per non entrare in  gara con mio padre. Di fatto ho recuperato  il rapporto con Sughi (ne parla  sempre indicandolo per cognome, ndr)  quando sono partito e mi sono stabilito  in Irlanda. Tuttavia lui mi ha  sempre incoraggiato, non è mai stato  castrante. Ma per me c'era una  distanza, una differenza sostanziale.

Lui era molto serio, aveva un’adesione  totale al suo lavoro. Noi eravamo  ragazzi, più scanzonati, dissacratori.

All’inizio quando ero ancora a Roma  collaborai anche con il Male, sai  Vincino, Vauro quel giro lì. Io insomma  ero e mi sento più leggero... Non  ho mai pensato che nelle mie opere ci  fosse un'operazione di verità, di  istanza sociale. Che ci fosse un messaggio...

Sughi lo faceva, la pittura  per lui era messaggio. Per me questo  non accade quando dipingo: posso  parlare con te per ore e analizzare  dove va questo mondo, ma quando  disegno la mia preoccupazione è  strettamente legata all'immagine.

Per Sughi no: lui ha disegnato la  classe dirigente, ha fatto una pittura  umanista... Certo, c'è un fenomeno  di scelta inconscia che io faccio che  andrebbe indagato, perché colgo  certi aspetti e non altri. Ma non è un  percorso intenzionale. Ci sono certo  anche punti di contatto tra noi: ad  esempio il confronto con la storia  dell'arte».

 

E come è stato per te arrivare  alla scelta di diventare artista?Un via diritta o contorta ?

«Diciamo che sono uno che ha  cercato in tutti i modi di evitarlo. Sì,  da bambino e ragazzo disegnavo con  Sughi nel suo studio. Lui mi diceva:  “Ah, sei bravo” e poi mi faceva vedere  come si mescolano i colori, le campiture  degli acquerelli. Ma era più  una cosa tra padre e figlio. Tuttavia  le mie scelte erano state altre: avevo  lasciato Cesena al seguito della famiglia  nel 1961 e ho finito il liceo classico  a Roma, mi sono laureato in  Storia e poi sono andato a Dublino  nel 1987... avevo 27 anni. Dovevo  fare un dottorato in Storia e non  sono più tornato. In realtà questo  distacco mi ha permesso di liberarmi  e invece di fare lo storico ho trovato  lavoro come disegnatore con degli  archeologi. Disegnavo le mappe, gli  artefatti. Ho trovato un linguaggio  diverso. Ho cominciato a usare il  disegno digitale e quella è stata la  mia cifra».

 

Non è mai tardi per imparare a  suonare il piano… Ma cosa fare  se ci arrivi tardi all'arte ?

«Ha degli svantaggi, questo va  detto. Certe cose andrebbero fatte nei  tempi giusti, un percorso artistico  lineare prevede che intorno ai  trent'anni tu sia abbastanza maturo.

Io che non rientro in questa fascia  d'età sono uscito dalla competizione  su certi requisiti. Allo stesso tempo  ha dei vantaggi, ti permette una  libertà di scelta che diversamente  sono sfizi... Una strada casuale o tardiva  ti permette di entrare e uscire da  certi schemi senza agitazione, panico,  ansia da prestazione. È come la  wild card nello sport: sei fuori dal  regolamento, ma puoi partecipare lo  stesso, e non è detto che non sia  entusiasmante. Il mio lavoro è veramente  una fonte da cui deriva la mia  forza. Se tu sei self confident (asserti-  vo) ce la puoi fare, la self confidence  non te la comperi domattina. Sarà  un lavoro più genuino, più naturale,  ma vero».

 

Sei quindi un autodidatta, un  po' come tuo padre...

«Sì, il disegno nello studio con  Sughi è stato sicuramente incoraggiante,  mi correggeva un po', fai le  pennellate più lunghe, acquarello  con acquarello... Tuttavia vedi io ho  studiato Storia all'università, ma  anche lì mi sento autodidatta. Alla  fine sei sempre solo con i tuoi libri e il  tuo archivio, e nessuno te lo insegna  a mettere insieme i pezzi di storia.

Così è con il disegno».

 

Ora lavori non solo nella tua  patria di elezione, ma anche in  altri paesi...

«Sì, l'ultima mostra l'ho fatta ad  Aberdeen con un pittore scozzese.

Una doppia personale... è bello fare le  cose in due. Aprono le letture, le persone  entrano e vedono un dialogo,  non un lavoro che si guarda allo  specchio. Sia in Scozia che in  Irlanda, come nella provincia inglese,  c'è un clima molto vivace per l'arte.

Ma questa vivacità non la vedi  quando vai in certe gallerie d'arte, la  vedi quando hai occasione di parlare  con i ragazzi che incontri in una  mostra o al pub, c'è un interesse vero.

È strano che invece il clima galleristico  rimanga invece impermeabile a  quest'aria e le gallerie a Dublino  mostrino soprattutto un'arte tradizionale.

Molto astratto non nuovo, di  maniera. Un figurativo decorativo.

Sicuramente c'è una grande alfabetizzazione  artistica: accanto al  Trinity College gli studenti vanno a  riposarsi in galleria, che è gratuita e  accogliente. Se l'arte la vedi, ti entra  dentro».

 

In particolare hai rapporti  ottimi con la Germania...

«Sì, in Germania ho la galleria con  cui lavoro da più tempo e che sostanzialmente  ha creduto nel mio lavoro  per prima. Sicuramente questo ha a  che fare anche con il clima economico:  sono stato alla fiera di Karlsruhe  recentemente e c'era un clima più  euforico, maggiore disponibilità economica.

La recessione in Italia si  sente moltissimo e nel nostro lavoro  è istantaneamente percepibile. Ad  Aberdeen ad esempio c'è disponibilità  perché c’è un po’ di petrolio...

Però la situazione italiana non la  capisco. Seguo ad esempio molti  musei e gallerie italiane su Twitter, si  divertono a fare tweet basati sul  nulla e non custodiscono la collezione.

Chiacchierano, non riflettono...

Ma forse sono troppo lontano».

 

So che stai anche lavorando  con tua sorella sull'archivio di  tuo padre...

«Ah sì. Abbiamo trovato un edificio  perfetto a Forlì per collocare in  sede definitiva la collezione di quadri,  la documentazione, le fotografie, la  biblioteca di Sughi. È uno spazio  grande e che permette un uso ibrido,  di archivio ed esposizione e contiamo  di aprirlo su prenotazione e al pubblico  a metà 2016. Incrociando le dita  tra maggio e giugno. Siamo all’opera  con Serena per completare l'archiviazione  e la certificazione, poi contiamo  di organizzare se non vere e  proprie mostre, perlomeno valorizzare  questo lascito attraverso la collaborazione  con enti e istituzioni.

Siamo ovviamente in contatto con  un pool di critici e storici dell'arte».

E qui ritroviamo la doppia natura di  Mario, storico e artista, che a lungo si è  firmato nerosunero, proprio per non  confondersi con Sughi senior.

 

 

Elettra Stamboulis

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RD Cult Magazine, Ravenna 1 March 2016

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