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Renato Barilli

Nerosunero, una storia che viene da lontano.

 

Il dato che salta subito agli occhi esaminando tutta l’opera fin qui svolta da Mario Sughi è l’amore estremo che l’artista nutre per la figura umana, e dunque per il racconto, per la narrazione delle mille occasioni in cui ci avviene di mostrarci, in pubblico come in privato. Ma bisogna aggiungere prontamente un correttivo a una simile dichiarazione preliminare: il nostro autore non ama affatto la carne di cui noi creature umane siamo fatte, ovvero la necessità che i nostri corpi secernano, per dirla con una classica accoppiata, sudore e lacrime, e che queste nostre manifestazioni naturali assumano un  primato, costringendo le vesti e ogni altro accessorio di moda ad aggiungersi come una seconda pelle, inevitabilmente corrotta dai rigurgiti di quella prima e naturale, cui si appiccicano come un supplemento inquinato, tanto che quando appunto il nostro corpo subisce un qualche incidente, occorre intervenire per strappare via quell’epidermide malaticcia e infetta che non consente interventi diretti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Paradossalmente, si potrebbe dire che a Sughi sarebbe caro il ripetersi di una catastrofe ecologica come l’eruzione del Vesuvio, nel fatale 79 a.C., quando i gas emessi dal fenomeno sismico consumarono i corpi, e ne rimasero solo i calchi modellati dall’accumularsi della cenere. Ma forse questo riferimento è un po’ troppo crudele, pensiamo a qualcosa di più tenue e leggero, come per esempio il mito dell’uomo invisibile, ovvero l’intervento di qualche farmaco prodigioso o colpo di bacchetta magica per cui, anche per questo verso, i corpi spariscono, e restano solo a galleggiare nel vuoto gli elementi complementari, e cioè occhiali da vista, abiti, foulard, cravatte.

Beninteso a queste catastrofi che incontriamo a livello di geologia o di fantascienza possono corrispondere precisi fenomeni stilistici, che forse trovano una loro sede privilegiata di effettuazione proprio in Inghilterra, col che si spiegherebbe anche la decisione che ha indotto un artista italiano a trasferirsi da quelle parti. Risaliamo a un’epoca decisamente rivoluzionaria, nei fatti stilistici d’oltre Manica, lo scorcio di tempo tra il ‘700 e l’800, quando per esempio si impose il genio di John Flaxman, deciso a scarnificare le presenze umane, ad affidarle solo a una inflessibile linea di contorno, però caricata per compenso di una responsabilità accresciuta, e quindi chiamata a scorrere nitida, essenziale, o pronta ad avvolgersi, a suggerire dati fisionomici, seppure solo attraverso la castità del puro disegno. Accanto a lui, agiva in tal senso un genio ancor più globale, William Blake, anche lui pronto, nelle sue incisioni, a svuotare le figure di contenuti materici, ad appenderle come pelli sgonfie ai rami di qualche arborescenza divenuta anch’essa magra, attorta su se stessa. Quello svuotamento era un modo per pronunciare il grande rifiuto verso tutte le tentazioni della carne, del nudo, delle anatomie laboriose, compiaciute dell’ostentazione di  torsi muscoli, o di seni sovrabbondanti. Era insomma un congedo perentorio da tutte le suggestioni di specie naturalista, tanto forte da valere anche per il futuro. A quel modo infatti Flaxman e Blake, perfettamente solidali, pronunciavano anche una condanna a priori di tutti i naturalismi che sarebbero riemersi nell’Ottocento, trionfando con l’Impressionismo, ma in definitiva rimanendo in pista anche col successivo Espressionismo, nonostante gli sberleffi che i suoi seguaci avrebbero inflitto a immagini conformi, ma era un modo per spremere ancor più i veleni insiti nei valori somatici, negli apparati muscolari e glandolari degli essere umani. Per questo verso, se c’è un riferimento che non vale, nel caso del Nostro, è quello a Lucian  Freud, che ai nostri tempi sa bene che cosa si debba fare per torturare volti, adipi, braccia, per spremerne fuori valenze nascoste, sentori forti, aggressivi. Forse per questo verso in Sughi c’è pure un gesto apotropaico nei confronti del padre Alberto, che a suo modo è stato anche lui un coltivatore di questi prelievi sanguigni e violenti. La storia del nostro artista passa per altri lidi, ma per tracciarla basterà seguire la strada aperta proprio dai grandi inglesi di fine Settecento, senza dimenticare che poco dopo per le strade di Parigi si imponeva l’intraprendenza di Silhouette, il signore che procedeva allo stesso modo, seppure a livello popolare, tranciando su un foglio compatto e monocromo, con l’aiuto delle forbici, le sagome di chi posava per lui. Del resto, da secoli era in atto il gioco abile di artisti dell’Estremo Oriente che ottenevano effetti similari semplicemente agitando le loro mani sullo sfondo di pareti, chiamate così a registrare stupendi effetti di “ombre cinesi”.

Procedendo in su per li rami di questa gremita vicenda raggiungiamo finalmente i nostri tempi, dove ancora una volta gli artisti d’oltre Manica sono i primi a capire quanto si possa ricavare dall’ insistere sulle sagome, sul gesto dello sforbiciare, dell’isolare. Essi cioè intendono bene che la gente di oggi, ovvero le masse, il popolo, quanto insomma esprime una cultura di base Pop, in definitiva detesta il corpo nelle sue dimensioni fisiologiche, biologiche, somatiche. Quello che conta, è la pelle aggiunta, l’artificiale domina sul naturale. E dunque ecco comparire un superbo erede di Flaxman e compagni quale David Hockney, e accanto a lui c’è pure di nuovo un Blake, anche se questa volta si chiama Peter e non William, e forse ha il torto di mescolare un po’ troppo i linearismi filanti con qualche corpo aggiunto, non  essendo del tutto persuaso ad acquattarsi sulle due dimensioni. Non per nulla la Pop inglese risulta assai più accattivante, in questo insistito giocare alle silhouette e alle ombre cinesi, di quanto non si registri tra i loro cugini d’oltre Oceano, che in definitiva procedono direttamente all’esaltazione del nostro corredo oggettuale saltando il passaggio attraverso l’icona antropologica. Quando mai Oldenburg si è preoccupato di porre, accanto ai nostri utensili, elevati a proporzioni macroscopiche, il volto, fosse anche ridotto a misure minime, del loro utilizzatore? E Lichtenstein ci ha sepolto sotto la scarlattina dei punti del retino cromolitografico, che in definitiva corrodono, non lasciano apparire a nudo,  la nettezza dei profili. E Warhol ha umiliato la presenza dei nostri volti moltiplicandoli senza fine, sbiancandoli, spersonalizzandoli. Ma a raccogliere il testimone, in questa corsa verso il ripudio delle carni a vantaggio di tutti i tratti esteriori, negli USA ha giganteggiato Alex Katz, che in definitiva è il precedente più valido da invocare nel caso di Nerosunero. Di passaggio, vale la pena di rivolgere una qualche  riflessione anche sullo pseudonimo assunto da Sughi. Il nero è quasi il simbolo dell’opzione univoca a favore del contorno, del tracciato esteriore, su cui, come si è ricordato, era fondata tutta la sapienza dei linearismi, alti e aristocratici, di Flaxman, come di quelli, bassi e davvero anticipatori della Pop, ritagliati da Monsieur Silhouette, e dalla folla di anonimi artefici di ombre cinesi. Forse non è ugualmente accettabile il raddoppio, il secondo nero che fa eco al primo, dato che viceversa proprio questa impostazione vuole che i tracciati esterni affidati a un nero incisivo siano fatti per ospitare squisite distese cromatiche. In mezzo, ci sta pure una inevitabile citazione dell’á plat di Gauguin, attento geometra che disegna le aiuole, i recinti, gli appezzamenti  (le cloisons) entro cui campire fulgide distese cromatiche.

Il nostro Sughi è l’eccellente erede di tutta questa sapienza secolare, o addirittura millenaria, nei suoi esiti vicini e lontani, aristocratici o banalmente “popolari”. Quello che è certo, è che la nostra umanità, nell’ universo di Nerosunero, si scolora, impallidisce, quasi viene meno, mentre dominano tutti gli elementi aggiunti, gli stessi per cui la moda ha fissato il termine così appropriato di accessori. E dunque, occhiali da sole, interventi del make up femminile, labbra turgide di rossetti, in gara con le insegne pubblicitarie. E se le carni, con le loro tinte smorzate, indecise, sporche o malate, se ne sono andate, a sostituirle intreviene un tripudio di vesti, fazzoletti, sciarpe, boleri, mutande, slip da bagno. L’essere umano è stato persuaso o obbligato a fare un passo indietro, per lasciare che trionfi tutta l’oggettistica che lo accompagna, o lo precede, lo domina, riesce ad essere più gustosa, significativa, indicativa di lui o di lei. E l’indagine si allarga a macchia d’olio, va a colpire le sdraio, le sedie, i salotti in cui queste esistenze cessate, assorbite dal vuoto, pure tenterebbero di trovare un qualche appoggio. Va da sé che la stessa eclissi da cui sono colpiti i dati somatici nella loro squallida realtà esistenziale raggiunge, offusca, cancella anche i dati ambientali, basti vedere quelle spiagge andate in quasi totale dissoluzione, contro i cui pallidi sfondi si stagliano i picchiettii cromaticamente vividi dei costumi da bagno.  Ovviamente lo stesso scoloramento riguarda anche la vegetazione, nel caso che questa folla “popolare” voglia darsi a qualche sano esercizio ginnico. Ma niente da fare, l’artificio ora è sovrano, la pelle aggiunta della cultura, sia essa high o mid o low, accompagna, sostituisce, surroga le deboli emissioni naturali,  in via di sparizione totale.

Un capitolo della nostra ricognizione va riservato anche ai procedimenti tecnici con  cui viene evocata questa popolazione di spettri. Non si potrà più trattare di interventi fisici, materiali, con paste estratte dai tubetti, macchiate dalle scorie e imperfezioni contro cui tuonava già il Divisionismo di Seurat. Ora saranno colori ottenuti coi mezzi più avanzati e sofisticati concessi dalla tecnologia dei nostri giorni. L’esclusione delle secrezioni naturali, dell’endiadi lacrime e sangue, tocca inevitabilmente anche i pigmenti del buon tempo antico, anch’essi, in definitiva, secreti, estratti prodotti intervenendo su materiali reali, e con procedimenti rozzamente fisici. In un certo senso, l’ideale odierno è di ritrovare la purezza di altre epoche, quando si perseguiva l’ideale di una pittura “acheropita”, non fatta con le mani, ottenuta per  miracolo divino, oppure per il “troppo umano” intervento delle macchine e di tutti i loro prodotti ulteriori.

 

Renato Barilli

nerosunero una storia che viene da lontano

pubblicato in nerosunero Across the lane, Giuda Edizioni (Ravenna, 2014)